Putin e la vera madre

Il Tribunale penale internazionale dell’Aia ha incriminato Putin, per avere deportato bambini ucraini in Russia. Putin non sarà arrestato, né processato. Nel caso finisse alla sbarra, potrà chiamare a testimoniare Alessandro Gilioli. Il testimone spiegherà alla Corte che non bisogna mai usare espressioni come «vera mamma», «vero papà» o «veri genitori», perché appartengono a una lingua ideologica che schiaccia la genitorialità sul biologico. I giudici converranno che la posizione del testimone è sensata per i bambini adottati, ma non per quelli rapiti e deportati.

In effetti, ogni espressione letterale, astratta e isolata dal testo e dal contesto, può significare tutto e nulla. Quando l’ascoltiamo, dobbiamo capire di cosa parla, cosa sostiene, a cosa si oppone, qual è il senso del suo discorso. Altrimenti, deleghiamo il pensiero al riflesso condizionato o all’antifurto.

Gilioli prova a calarsi in qualche discorso e pone delle domande. «Definireste “vero padre” un donatore di sperma? O anche un maschio che ha avuto una relazione fugace con una donna e magari neppure è stato informato di averla messa incinta, o se informato se n’è fregato?» La mia risposta è no. Anche se quell’uomo, poi rivendicasse di essere il «vero padre». Quando succede, non capita contro il padre adottivo, ma contro la madre. La questione che bisogna tenere a mente riguarda, non la falsa opposizione tra gentori biologici e genitori adottivi, ma la differenza tra la maternità e la paternità.

Poiché, il contributo paterno alla riproduzione è minimo e la paternità è un’esperienza simbolica, padre biologico e padre adottivo si pareggiano con facilità. Fermo restando, la precedenza del padre biologico, se ha riconosciuto il figlio, se è sempre stato presente, rispetto a qualsiasi altro padre candidato. Anche se, dal mio punto di vista, il «vero padre» dovrebbe essere colui che la madre sceglie come tale.

In una riflessione sull’utero in affitto, quale può essere il senso di «vera madre»? Gilioli si domanda anche questo. «In una maternità surrogata, la “vera madre” sarebbe quella che ha dato l’ovulo o quella che ha portato avanti la gravidanza, quando le due figure non coincidono?» Ma invece di tentare la risposta, si rifugia nella complessità. «Lo schiacciamento della genitorialità tutta sul biologico mostra qualche limite, diciamo, se messo al confronto con la complessità del mondo». Peccato, che nell’utero in affitto, la complessità sia creata ad arte, proprio per rendere opinabile la maternità.

La madre surrogata possiede già i suoi ovuli. Perché le vengono impiantati quelli di un’altra donna? Perché, c’è un’altra donna che ha un desiderio di filiazione genetica. Oppure, c’è una donatrice anonima, che serve ai committenti, per meglio alienare la madre surrogata da suo figlio, perché gli ovuli non sono suoi, mentre lo sperma è del padre, colui che avrebbe titolo a scegliere la «vera madre» o un altro padre. Il presupposto di questa operazione è proprio lo schiacciamento della genitorialità sul biologico a sua volta schiacciato sul genetico.

Il punto è che la gravidanza, nella riproduzione umana, è superiore a qualsiasi contributo genetico. Perciò, è madre la donna che porta per nove mesi una creatura in grembo e la partorisce. Non perché lo dice la legge, o l’ideologia, o la religione, o la teoria, o la tradizione, o l’opinione di chiunque. Ma perché lei è riconosciuta come madre dal bambino attraverso i suoi sensi. E separarli alla nascita è una violenza nei confronti dell’una e dell’altro.