La maternità surrogata vorrebbe separare gestazione e maternità

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Che la donna che ha partorito non sia la madre è un’idea assurda. Eppure, c’è chi la razionalizza nella maternità surrogata, specie nella versione gestazionale. Gli spermatozoi sono di un uomo, gli ovuli di un’altra donna. Quindi, la madre surrogata non è la madre genetica. Lei «solo» contiene e partorisce. I veri genitori sarebbero i fornitori dei geni. Infatti, la madre surrogata, pur dotata di ovuli suoi, deve subire l’impianto degli ovuli di un’altra donna, proprio per essere «meno» madre. L’idea è credere di poter separare la gestazione dalla maternità. Di qui l’espressione «gestazione per altri». Un’aberrazione che disumanizza la riproduzione umana e la trasforma nell’alienante processo di fabbrica. Da dove nasce questa aberrazione?

Per tutto il tempo della nostra specie, abbiamo creduto, non a torto, che la vita fosse generata dalle donne. Molte culture antiche erano società matrilineari, perché riconoscevano alle donne il ruolo esclusivo o principale nella creazione della vita. Solo in coincidenza con la rivoluzione agricola, gli uomini maschi hanno intuito meglio il loro ruolo nella generazione. Noi, persone oltre la mezza età, abbiamo fatto in tempo da bambini ad ascoltare l’antica spiegazione analogica. Come il contadino insemina la terra e poi ottiene i frutti, così l’uomo insemina la donna e poi ottiene il figlio.

Nel patriarcato, gli uomini hanno deciso che il contributo maschile alla generazione fosse il più importante, il contributo attivo, o addirittura l’unico contributo. Secondo Aristotele, l’ideologo del patriarcato, il maschio era il responsabile della trasmissione della sostanza vitale, lo sperma, la donna, invece, aveva solo un ruolo passivo nel processo di generazione del figlio, quello del contenitore per il feto in crescita.

Questa idea è sopravvissuta fino al XX secolo. Nel 1956 fu scoperto il contributo genetico degli ovuli, dimostrando che le cellule umane contengono 46 cromosomi, 23 derivanti dall’uomo e 23 derivanti dalla donna. Così, la donna è stata parificata all’uomo nella trasmissione dei geni. Ma, nel senso comune patriarcale, il primato genetico è stato confermato. Sia il patriarcato (l’uomo superiore alla donna), sia la parità di genere (la donna pari all’uomo) sopravvalutano il contributo genetico comune ai due sessi e sottovalutano lo specifico contributo femminile nella riproduzione umana: la gravidanza. Anche la donna trasmette i geni e per il resto rimane un contenitore.

Invece, la madre, oltre ai geni, ci mette il sangue, i tessuti, l’ossigenazione, il nutrimento. Sviluppa la creatura dal suo corpo, nel suo corpo. La maternità rimodella il cervello delle donne, ne modifica le aree della corteccia cerebrale cruciali per accudire la creatura e prevedere l’attaccamento della madre al figlio, resa più capace di percepire bisogni, emozioni, pensieri. Nei nove mesi di gravidanza il figlio sviluppa una relazione psicofisica con la madre ad un livello di simbiosi irripetibile. Con quella madre che lo porta in grembo; non con gli ovuli o gli spermatozoi di chissà chi.

Se un costruttore ci facesse una casa a partire da due granelli, gli riconosceremmo un potere magico o divino. E mai avremmo l’impudenza di dirgli: «Sei bravino, ma la vera creazione l’ho fatta io che ti ho portato i due granelli». Con le madri ci siamo comportati così. Con la maternità surrogata, rinforziamo questo comportamento.

Certi progressisti credono che le famiglie arcobaleno siano sempre e comunque alternative alle famiglie patriarcali. Ma se alcune delle «nuove famiglie» pensano di formarsi adottando pratiche come l’utero in affitto, non solo confermano la sostanza ideologica del patriarcato, ma fanno fuori quel poco di tradizione matriarcale finora sopravvissuta, nonostante il patriarcato. Vogliamo davvero permetterlo?

Se fossimo appena giusti, invece di elaborare istituti giuridici abominevoli, per fare della riproduzione umana un’industria e un mercato, concepiremmo un diritto di famiglia fondato sul diritto della madre.